
4 Maggio 2025/ Anno C
At 5, 27b-32.40b-41; Sal 29; Ap 5, 11-14; Gv 21, 1-19
Il capitolo ventunesimo del Quarto evangelo conduce il lettore/ascoltatore, attraverso alcune indicazioni temporali, a prendere coscienza di una condizione ben più intima e profonda di quella rappresentata dal tempo esterno: si tratta della condizione del cuore.
L’evangelo, infatti, parla di una notte (che si rivela essere infeconda: «quella notte non presero nulla»), che si apre a un’alba in cui si fa chiara una presenza: «Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva».
È questa la condizione dei discepoli che, prigionieri delle loro tenebre interiori, proprio lì (nel loro buio infecondo) sono visitati dal Risorto, esattamente come, poco prima (al capitolo ventesimo), era avvenuto nel cenacolo, dove essi si trovavano «a porte chiuse».
L’evangelo sembra così voler dire che, affinché le energie del Risorto possano effettivamente dare vita e luce, i discepoli devono accorgersi che Gesù sta (o, anche, rimane) nella sua Chiesa.
Egli, cioè, sta lì dove sono i suoi e li incontra e li salva con la potenza della sua Pasqua lì dove essi si dibattono con le loro paure, le loro incredulità, le loro notti, le loro infecondità, i loro “poveri” amori.
Ma c’è dell’altro, che l’evangelo intende suggerire: l’apertura al riconoscimento della presenza del Risorto non è mai un dato acquisito una volta per sempre, tanto che, pur avendolo già incontrato nel cenacolo, i discepoli si disperdono (qui, al capitolo ventunesimo, se ne contano soltanto sette!) e quelli che scelgono di restare uniti tornano alla loro quotidianità, fatta di lavoro, di pesca.
È proprio qui – in questo contesto di dispersione e di dimenticanza, nel quale si fa esperienza di infecondità –, che il Signore viene.
A riconoscerlo, però, è (e non a caso!) il solo discepolo amato, che grida a Pietro (a colui che, una volta ravveduto, avrebbe dovuto confermare i suoi fratelli: cf. Lc 22,32): «È il Signore!».
È solo nell’amore che è possibile riconoscere la presenza del Risorto, perché solo nell’amore si può assumere la fatica di andare verso Gesù attraversando a nuoto il mare… attraversando, cioè, il male della storia e della propria vita, nella certezza di essere custoditi dal suo sguardo e di essere da Lui attesi.
Il Risorto c’è e viene a cercare i suoi sulle rive delle loro infecondità, ma è necessario anche andargli incontro a qualunque costo: è solo tuffandosi nelle lotte della storia a capofitto che si può arrivare al banchetto dell’Agnello (cf. Ap 19,9).
Sulla spiaggia Gesù ha preparato, infatti, un banchetto che ha il sapore della mensa eucaristica.
E qui, a questa mensa, Pietro è interrogato sull’amore: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di tutte queste cose?».
Pietro è stato condotto al Risorto dall’amore di un altro (quello del discepolo amato), ma anche per lui arriva il momento di fare i conti con il proprio amore, con il proprio cuore.
E il Signore interpella Pietro sul suo amore personale e chiede a lui che sappia dargli un primato.
Non importa la pienezza di amore che si è in grado di vivere: il Risorto parla a Pietro di agàpe, usando il termine con cui, in tutta la tradizione “giovannea”, si parla dell’amore di Dio, dell’amore che è in Dio, dell’amore che è Dio (cf. 1Gv 4,8); Pietro, invece, risponde parlando di philìa, di quel voler bene che è proprio dell’amicizia.
Ma Gesù accoglie quell’amore ancora povero e, disposto a incontrare Pietro, anche se al livello del suo povero amore, alla terza volta arriva a interrogarlo al livello della philìa: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Su questo amore povero, ma autentico, di Pietro, Gesù ancora scommette («Pasci le mie pecore») e, solo obbedendo a questa richiesta, Pietro potrà imparare ad amare di quell’agàpe che lo farà sempre più simile al suo Signore, fino a che egli si lascerà vestire da un Altro, che lo condurrà dove non avrebbe mai voluto o saputo andare.
L’ultima parola che il Risorto pronunzia nell’evangelo è «Tu seguimi», parola rivolta a Pietro, ma, in lui, a tutti coloro che come lui, lasciandosi condurre a Cristo dall’amore di altri, vogliono imparare a restare e a crescere in quell’amore che scaccia ogni paura (cf. 1Gv 4,18).
P. Gianpiero Tavolaro
