Is 35,1-6a.8a.10; Gc 5,7-10; Mt 11,2-11

Liturgia del giorno 14 Dicembre 2025 – III DOMENICA DI AVVENTO – ANNO A – sito ufficiale della CEI – Chiesacattolica.it

Dite agli smarriti di cuore:
«Coraggio, non temete!
Ecco il vostro Dio,
[…] Egli viene a salvarvi».
Allora si apriranno gli occhi dei ciechi
e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.
Allora lo zoppo salterà come un cervo,
griderà di gioia la lingua del muto.
Ci sarà un sentiero e una strada
e la chiameranno via santa.
Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore
e verranno in Sion con giubilo;
felicità perenne splenderà sul loro capo;
gioia e felicità li seguiranno
e fuggiranno tristezza e pianto. (Is 35,4-6;10).

Giunti al centro del cammino dell’Avvento, il testo di Isaia che ci viene proposto sostanzia, motiva e dà voce alla gioia augurata per questa domenica Gaudete. L’introito, da cui il nome Gaudete, è ripreso da Fil 4,4.5: «Rallegratevi sempre nel Signore, ve lo ripeto:
rallegratevi. Il Signore è vicino!». Ed è la novità profetizzata nel testo di Isaia, richiamato nel Vangelo dalle parole di Gesù, che mostra con semplicità il frutto della presenza del Signore, della sua vicinanza, del suo venire. Ognuno è guarito dalla sua malattia e infermità, la gioia e la felicità – ciò che tutti desiderano – si instaurano ormai senza fine e così il pianto e la tristezza, segno di lutto e di morte e di dolore, scompaiono. L’invito alla gioia che la liturgia ci rivolge ci rimanda all’invito alla gioia fatto a Maria (Lc 1,28) dall’angelo che le annuncia la venuta di un figlio, un figlio che sarà grande e chiamato “Figlio dell’Altissimo” (Lc 1,32). La gioia a cui siamo invitati è la gioia che si muove di fronte all’agire di Dio, una gioia profonda, grave; non una gioia passeggera, momentanea, una gioia che passa per lo sconvolgimento delle sicurezze delle cose del mondo, perciò grave, ma una gioia stabile e sicura, quella che può essere donata solo da Dio, dalla salvezza che viene da lui per gli uomini che la accolgono e non si lasciano scandalizzare dalla novità del Regno che viene (Mt 11,6). Una gioia duratura – rallegratevi sempre – che non dipende dalle alterne vicende della vita, una gioia che al cristiano è donata anche nei tempi di dolore, nell’attesa che passi quel frattempo che ancora ci separa dall’instaurarsi definitivo del Regno. Solo i piccoli, ai quali appartiene questo Regno, possono lasciare che la temperanza sia umile custode della gioia in ogni momento della vita.

Domenica scorsa abbiamo incontrato l’inizio della predicazione del Battista, c’era Giovanni senza Gesù; poi Matteo presenta la scena del battesimo (Mt 3,13-17) dopo la quale, con le tentazioni nel deserto, inizierà poi l’opera di Gesù, il suo ministero, il suo annuncio e i suoi miracoli. Arrivati al capitolo 11 troviamo una sorta di digressione, un bilancio di tutto quello che è avvenuto: l’agire di Gesù suscita domande, domande sulla sua identità. Inaspettatamente la domanda sull’identità di Gesù è posta in bocca a Giovanni, questa la cornice letteraria per fare questo bilancio. Compare, perciò, la terza scena che mette in relazione Giovanni e Gesù. Ci viene detto che Giovanni è in carcere, ma il lettore non sa il perché e non lo saprà fino al capitolo 14 (Mt 14,1-12). Dalla prigione, dunque, Giovanni sta ricevendo notizie di quello che Gesù sta facendo ed evidentemente qualcosa non gli è chiaro, qualcosa sorprende anche lui, che pure ha preparato la strada a Gesù e lo ha battezzato dichiarando di “non esserne degno”. L’identità di Gesù e anche quella di Giovanni sono il nucleo centrale del nostro racconto: le due sono strettamente connesse, come vedevamo anche la scorsa domenica. Il modo nel quale la domanda è posta a Gesù da parte dei discepoli di Giovanni porta dentro ancora un verbo del “venire”: o erchomenos, in forma di participio significa “colui che viene”, “il veniente”. Non si tratta dello stesso verbo che si sottolineava domenica scorsa e che indicava concretamente l’ingresso in scena di Giovanni – venne – e poi anche quello di Gesù; già quella formulazione ci faceva riflettere, oggi ancor di più quest’altro verbo e la forma di participio sostantivato indicano un’azione in fieri, che già sta accadendo ma che ancora deve svilupparsi del tutto. Questa forma di participio ricorre più volte nei Vangeli per indicare il Messia. Giovanni, allora, vuole sapere se è lui veramente quello che Israele attende, quello che sarebbe dovuto venire, o se non è ancora lui e bisogna continuare ad attendere. Ci sconvolgono la domanda e il dubbio di Giovanni, così come siamo incantati dalla gratuità del suo cuore e dal suo pensiero per il popolo: è in prigione in procinto di morire e non pensa a sé stesso ma alla storia del suo popolo con il loro Dio e a quella salvezza promessa. Giovanni dubita, è venuto a sapere dell’agire di Gesù ma non è sicuro chi sia colui al quale ha preparato la strada. Già nel Vangelo di domenica scorsa si comprendeva che il Messia atteso da Giovanni (Mt 3,7-12) è uno che avrebbe dovuto portare una soluzione radicale al peccato, magari estirpando i peccatori e così le opere di Gesù non sembrano corrispondere all’attesa. Come può Giovanni preparare la via senza sapere davvero a chi la sta preparando e quello che Gesù porterà? L’incertezza e la domanda di Giovanni, la sua comprensione non totale e completa ci lasciano senza parole… Davanti a questo agire così misterioso di Dio, siamo turbati; speriamo, però, che non siamo scandalizzati, cioè che questo agire misterioso ci dia da riflettere e crescere nella fede e non sia “pietra d’inciampo”, scandalo appunto, che fa fermare e crollare la nostra fede. Anche nel realizzare pienamente le nostre vocazioni, quando abbiamo la grazia di farlo, non tutto è nelle nostre mani e nella nostra comprensione: quel tutto appartiene solo a Dio. Giovanni con il suo dubbio ci insegna a stare nelle vocazioni che Dio ci dà con grande umiltà e consapevoli della parzialità che ci è dato comprendere.

  La risposta di Gesù ai discepoli di Giovanni fa sì che il lettore sia direttamente interpellato ed entri nella scena: nessuna risposta netta e sicura, invece Gesù chiede a Giovanni di rispondere interpretando il suo agire attraverso la Scrittura ma chiedendogli anche di fare un passo in più che è quello della novità che esso porta. La missione di Gesù è spirituale e non sociale. Così, interpellando Giovanni, il testo interpella i discepoli, di Giovanni e di Gesù, e alla fine interpella noi: cosa attendiamo? Che tipo di Messia attendiamo? Sappiamo purificare la nostra attesa di fronte a Colui che veramente necessita di essere mandato agli uomini, cioè un Messia che guarisce? Solo il singolo potrà dire il suo sì, disposto a non scandalizzarsi di fronte alla verità della salvezza di cui l’uomo ha bisogno. Così, le parole di Gesù, per Giovanni e per noi, richiamano – molto probabilmente – alcuni passi di Isaia, messi qui insieme e che descrivono l’agire di Gesù: si tratta di Is 35,5-6a (che oggi la liturgia ci propone come prima lettura, appunto), ma anche di Is 29,18 (anche qui si parla di ciechi che tornano a vedere e sordi che odono), di Is 26,19 in merito alla risurrezione dei morti («di nuovo vivranno i tuoi morti. I miei cadaveri risorgeranno») e Is 61,1 in cui si parla del lieto annuncio portato ai miseri. Quest’ultimo testo, in particolare, parla dello Spirito del Signore inviato su uno che viene consacrato con l’unzione, dunque è un testo messianico. Comprendiamo, perciò, che la novità gioiosa e trasformatrice che è promessa con il ritorno del Signore, atteso nel tempo di Avvento, comincia ad essere già presente nel realizzarsi delle profezie di Isaia. Giovanni dovrà riconoscere che in Gesù comincia quel tempo nuovo promesso. Questo, cosa significa per me? Cosa significa per me che in Gesù comincia un tempo nuovo? Che significa per la mia vita, le mie scelte e le mie priorità?

Andati via i discepoli di Giovanni, Gesù parla di lui; usa delle domande retoriche per dire cosa non è Giovanni, in maniera evidente: due immagini completamente distanti da Giovanni, che nella forma del contrario vogliono indicare la sua povertà radicale (non vive nei palazzi) insieme alla sua forza (non è una canna sbattuta dal vento). Secondo alcuni le immagini vengono da Erode Antipa, il potente che aveva una grande fortezza a Macheronte, a est del Mar morto, e che era riprodotto su alcune monete come una canna che cresce nella valle del Giordano. Ironicamente, allora, Gesù chiede se gli uomini che sono andati da Giovanni hanno cercato questo, un potente, o si sono resi conto di andare incontro a un profeta… anzi, egli è più di un profeta. Egli è l’ultimo dei profeti, per grazia, perché ha ricevuto da Dio la vocazione di essere angelo, colui che annuncia la venuta del Messia: così Gesù lo descriverà citando nuovamente la Scrittura (sono messi insieme Ml 3,1 e Es 23,20).  Allora, mentre Giovanni ha interrogato l’identità di Gesù, Gesù parla dell’identità di Giovanni. È sempre lui, Gesù, in questo caso, a dare voce a entrambe le identità: senza soluzioni dogmaticamente poste ma in entrambi i casi interpellando l’ascoltatore (di allora e di oggi). Il brano che abbiamo letto non arriva ai versetti successivi, che aprono altre questioni complesse (violenti oppositori del regno che lo deprederanno) ma che giunge a una affermazione importante di Gesù che in realtà completa il quadro delle due identità a confronto di Giovanni e di Gesù. Gesù dice che Giovanni è quell’Elia che deve venire. Non una reincarnazione ma un uomo che prende su di sé la portata profetica di Elia, il cui ritorno è atteso come annuncio della venuta del Messia. Riconoscere in Giovanni Elia determina di poter riconoscere, per chi ha orecchi per udire, in Gesù il Messia: Egli è quel piccolo che è il più grande nel Regno dei cieli.

Sorella Michela Arnone

Josef Anton Hafner (1709-1756): Giovanni battista in prigione invia i suoi discepoli a Gesù (Oberzell, Alte Kirche, 1750)