27 Aprile 2025/ Anno C

At 5,12-16; Sal 117; Ap 1,9-11a.12-13.17-19; Gv 20,19-31
La resurrezione non è un evento meramente “soggettivo”: essa non si risolve, cioè, in un fenomeno di natura psichica, per il quale coloro che hanno incontrato il Risorto hanno fatto di Lui una esperienza esclusivamente interiore.
La resurrezione ha la sua “oggettività”: quel medesimo Gesù che è morto in croce è restituito alla vita, entrando in una nuova condizione (quella che gli evangeli descrivono come esperienza di una corporeità non più soggetta alle leggi spazio-temporali e che la teologia tenterà di esprimere mediante la categoria del “corpo glorioso”).
Eppure, l’“oggettivo” della resurrezione si incontra con il “soggettivo” di cui ciascun uomo è portatore: anzi, è solo nello spazio di questo incontro tra oggettività dell’evento e soggettiva della sua appropriazione personale che si dà la fede in Cristo, come personale adesione al Crocifisso-Risorto.
Non stupisce, allora, che il Risorto venga a cercare i suoi nelle loro paure e nelle loro “chiusure”, in quello spazio asfittico e colmo di timore e di non-senso nel quale essi sono chiusi, in realtà prigionieri di sé stessi più che di un “esterno” ostile («mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei»).
Gesù entra a porte chiuse: mentre Egli è uscito vivo dalla tomba nella quale è entrato morto, i suoi, che sarebbero vivi, sono ancora (come morti) in una “tomba” fatta di paure, fallimenti, tradimenti, dubbi e persino di incredulità (Maria di Magdala ha già incontrato il Risorto, ma loro non le hanno creduto!).
La sera di quel giorno di risurrezione, dunque, Gesù va a cercare ancora una volta i suoi per liberarli! Il Signore è risorto, ma la sua vittoria e la sua risurrezione sono anche per noi: la Pasqua intende celebrare non una vittoria di Dio sull’uomo, ma una vittoria di Dio per l’uomo.
In Gesù Dio non schiaccia l’umano, ma lo redime “dal di dentro”: Gesù ha assunto tutte le ferite e le contraddizioni dell’umano e le ha portate in Dio. Per questo Gesù nel luogo dove sono i suoi con le sue piaghe!
La risurrezione non ha guarito quelle ferite? Perché il Risorto le ha ancora sul suo corpo? Non si tratta semplicemente di un segno di riconoscibilità da parte del Risorto: le piaghe non servono per affermare una indubitabile continuità tra il Crocefisso ed il Risorto!
Esse sono il segno dell’amore e ora, dopo la resurrezione, non sanguinano più… non causano più morte, ma vita alla quale può prendere parte chiunque sia disposto a riconoscere in esse il segno dell’amore di Dio fino all’estremo (cf. Gv 13,1)! E la vita che Gesù porta ai suoi – nello spazio chiuso dei loro cuori – è fatta di “cose” molto concrete, quelle medesime “cose” che aveva promesso: la gioia (cf. Gv 16,22), la pace (cf. Gv 14,27), lo Spirito Santo (cf. Gv 15,26-27).
I discepoli gioiscono nel momento in cui Gesù mostra loro le sue piaghe: essi gioiscono non per le piaghe in sé, ma per l’amore che leggono in esse. Gesù, poi, entra donando pace: è la pace biblica, la pace-unificazione con sé stessi, con il mondo, con Dio.
È il grande bene che rende uomo l’uomo ed è dono pasquale, perché si raggiunge pienamente solo se si trova nel Crocifisso-Risorto il senso profondo del vivere e del morire!
E, infine, Gesù soffia lo Spirito: è lo Spirito che porta a pienezza i doni pasquali della gioia e della pace e sarà egli stesso causa di gioia e di pace, perché porta la remissione dei peccati. D’altra parte, i discepoli saranno testimoni proprio portando la remissione dei peccati.
La Chiesa è così posta nel mondo per essere luogo di perdono.
Il dono genera la responsabilità: il soffio dello Spirito che esce dalle labbra de Risorto è dono di riconciliazione, è dono di una nuova creazione, da assumere, custodire e da annunciare. L’esperienza di amore e di liberazione che quei dieci discepoli hanno fatto nella sera del primo giorno dopo il sabato è narrata a Tommaso.
I dieci cercano, con insistenza, di farlo uscire dal suo buio autosufficiente e incapace di credere, senza vedere, sulla parola della comunità ecclesiale. Gesù lo va a cercare proprio lì, nella sua pretesa di toccare e vedere, nella sua durezza di cuore, vincendo quella pretesa e quella durezza con la sua condiscendenza: «Metti qui il tuo dito… tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!».
Tommaso si lascia vincere e proclama la fede generata in lui da Gesù («Mio Signore e mio Dio!»).
L’Evangelo si conclude così con la proclamazione da parte di Gesù che c’è però una fede ancor più perfetta di quella di Tommaso, quella di chi crederà senza vedere… quella fede che si farà generare dall’ascolto…
P. Gianpiero Tavolaro

(1710, Milwaukee Art Museum, USA)