18 Maggio 2025/ Anno C

At 14, 21b-27: Sal 144; Ap 21,1-5a; Gv 13, 31-33a.34-35
Il Quarto evangelo pone al cuore della rivelazione di Gesù l’entolè kainé (il mandatum novum), quello che, si è soliti intendere come il “comandamento nuovo” e che, in realtà, sarebbe più preciso comprendere come “incarico definitivo” o “compito ultimo”: in esso, Gesù consegna ai suoi discepoli il senso ultimo della sua missione (vale a dire che la rivelazione dell’amore di Dio ha una ricaduta sul piano delle relazioni orizzontali, fraterne), mettendoli di fronte alla responsabilità di ripresentare e di ridire il suo amore mediante il loro amore. Si tratta, comunque, di un incarico che riguarda la comunità dei discepoli anzitutto nel suo profondo (nella sua identità) e poi nella sua missionarietà.
La Chiesa, cioè, è davvero la comunità dei discepoli del Signore quando si ama del suo amore e, dunque, essa può (e deve) raccontare l’amore di Dio al mondo non nella misura in cui ne è semplicemente custode, ma nella misura in cui da esso si lascia informare e plasmare: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».
Gesù pronuncia queste parole, a compimento del mandatum novum, subito dopo la lavanda dei piedi, che, nel Quarto evangelo, sostituisce il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia, della quale ha il medesimo significato, di manifestazione di un amore fino all’estremo…
Dall’esperienza e dalla comprensione della lavanda dei piedi, che è prefigurazione della croce, i suoi imparare a costituirsi come una fraternità animata da un amore – quello di Cristo, ma anche quello che in Cristo ciascuno vive nella sua relazione con gli altri – che si dovrà espandere a tutti. Il mandatum novum – e la lavanda dei piedi che lo significa – non è invito a un amore generico (in quanto rivolto a tutti) e neppure a un amore meramente “pratico” (in quanto espresso mediante dei gesti di carità concreta verso gli ultimi e i bisognosi): esso riguarda anzitutto l’amore intra-ecclesiale, che i discepoli – che si sono sentiti toccare i piedi, le loro miserie e i loro peccati dall’amore inginocchiato del Signore – sono chiamati a vivere tra di loro.
Solo un amore così, tanto gratuito quanto intelligente (capace, cioè, di guardare a ciò che l’altro davvero è, un amore che non teme il limite e il fallimento, dei quali, al contrario, è disposto a farsi carico), solo un amore radicato nel profondo di ciascuno e, dunque, capace di toccare il profondo di ciascuno renderà possibile la conoscenza del discepolato e, mediante esso, di Colui di cui si è discepoli; solo un amore intra-ecclesiale, che sappia incarnare quell’amore del Cristo fattosi schiavo per amore, renderà possibile l’annunzio.
Solo un amore intra-ecclesiale autentico, una vera fraternità mediata da Gesù Cristo, racconterà Cristo e renderà la Chiesa credibile e vera Chiesa di Cristo. D’altro canto, la logica del Quarto evangelo è che Cristo racconta il Padre (cf. Gv 1,18) e che la Chiesa deve raccontare Cristo (cf. 1Gv 4,12).
Qui si giocano l’autenticità della Chiesa, la sua affidabilità e la sua credibilità… qui si gioca la sua identità!
La Chiesa, se vuol essere realmente comunità dei discepoli del Signore, deve essere una comunità di fratelli che si amano e che lottano per amarsi; che lottano perché nulla si opponga all’amore fraterno, sola realtà che può cantare radicalmente il volto di Dio!
La fraternità è, così, dono di Cristo all’umanità, ma è un dono che esige una responsabilità: per essa si deve essere disposti a lottare, perché essa è una sfida alla mondanità che abita ogni uomo e che rende non immediati il riconoscimento e l’accoglienza dell’altro nella sua alterità. Solo una Chiesa al cui interno c’è amore può dare amore al mondo e dunque ai lontani!
P. Gianpiero Tavolaro
