11 Maggio 2025/ Anno C

At 13, 14.43-52; Sal 99; Ap 7,9.14b-17; Gv 10, 27-30

Per il Quarto evangelo Gesù, il Verbo di Dio, rivolto dall’in principio verso il Padre, è la narrazione, la spiegazione del Padre (cf. Gv 1,18): egli narra un Dio che non risponde alle attese dell’uomo – spesso volte verso orizzonti miopi e fallaci –, ma che è capace di compiere le sue promesse!

E la promessa che l’evangelo annuncia – riprendendo e portando a pienezza quanto rivelato già nell’Antico Testamento – è quella di una vicinanza straordinaria tra l’uomo e Dio: una vicinanza che l’uomo è messo in condizione di cogliere, perché è la vicinanza di chi si è fatto davvero suo compagno nella sofferenza e nella morte; è la vicinanza di chi lo precede e lo sostiene nel cammino di umanità.

E Gesù precede l’uomo, proprio come il pastore che, secondo la consuetudine orientale, cammina sempre davanti al gregge. Gesù ha fatto questo assumendo la carne dell’uomo, la sua natura, e ha creato così un legame indissolubile con ogni essere umano.

È questo ciò che rende inconfondibili la voce e la parola di questo pastore: chi appartiene al suo gregge le riconosce… ha dentro di sé come un senso ulteriore capace di riconoscere quella voce e quel volto e per questo, come il discepolo amato, sa gridare «È il Signore» (Gv 21,7) a quanti non sanno riconoscerlo e sono imprigionati nella cecità e nella sordità della propria infecondità.

Chi appartiene al suo gregge riconosce la sua voce e solo chi è capace di farlo appartiene veramente al suo gregge, come Maria di Magdala che, nel giardino, riconosce la voce del Risorto che la chiama per nome: allo stesso modo, ogni discepolo deve rinunciare alla pretesa di afferrarlo con le proprie mani (cf. Gv 20,17), cominciando, invece, a vivere nelle mani di Lui: «nessuno le strapperà dalla mia mano… e nessuno può strapparle dalla mano del Padre». 

L’immagine delle mani di Cristo pastore si dilata fino a mostrare altre mani ancora, quelle del Padre: mani che si sovrappongono in una rivelazione grandiosa che questa pagina giovannea consegna: «Io ed il Padre siamo una cosa sola»!  

Abitando le mani del Figlio si abitano le mani del Padre! Ma questo richiede che si passi attraverso uno scandalo che capovolge tutte le logiche del buon senso del mondo: se, infatti, “mano” dice normalmente forza e capacità di azione, le mani di Cristo sono mani ferite per amore… apparentemente deboli, ma in realtà potenti per aver scelto l’impotenza di essere inchiodate a una croce… quelle mani, che portano in sé le ferite dell’amore, dopo la Pasqua raduneranno le pecore disperse, le stringeranno a sé, le faranno diventare suo gregge per sempre.

Gesù è pastore buono perché nel suo agire paradossale non si serve delle pecore per vivere, ma serve le pecore e dona la vita per esse… dona la vita perché esse abbiano la vita eterna.

Egli è un pastore affidabile perché non è estraneo al gregge: si è fatto uno di loro! Egli – come ricorda l’autore dell’Apocalisse (cf. Ap 7,17) – è l’Agnello divenuto pastore!

Il suo essere pastore non è altro dal suo essersi fatto Agnello: egli è pastore in quanto Agnello che ha dato la vita e che conduce alle fonti della vita, perché egli sa che, paradossalmente, quelle fonti sono solo là dove si dà la vita, là dove si è capaci di perdere la vita per amore!

A lui ci si può consegnare: ora, dopo la Pasqua, basta il suono della sua voce, basta cioè la sola sua presenza per credere e affidarsi.

Chi appartiene a Lui desidera solo una cosa: stare nelle sue mani! Così, in quelle mani, i discepoli staranno sicuri, ma anche forti nella lotta, senza più né fame né sete, perché nutriti e dissetati di quella vita eterna che è vita nell’amore, già qui, già ora.

Una vita che sazia e disseta, perché ricolma di senso!

P. Gianpiero Tavolaro

Bradi Barth (1922-2007): Il buon pastore