QUARTA DOMENICA DI PASQUA

Anno A/3 Maggio 2020

At 2, 14.36-41; Sal 22; 1Pt 2, 20-25; Gv 10, 1-10

            L’allegoria del pastore è al cuore della rivelazione pasquale di questa domenica; un’allegoria che va colta come rivelazione del cuore di Dio e del Messia Gesù e, solo in seconda istanza, ci deve far pensare al ministero pastorale che alcuni svolgono nella Chiesa. Infatti, se non si coglie l’aspetto rivelativo di questa pagina l’aspetto ecclesiale del ministero pastorale diventa vuoto e meramente moralistico.

            La dimensione rivelativa di questo testo ci è data subito dal tipico duplice “amen” giovanneo con cui inizia il discorso; in genere si traduce con “in verità, in verità” ma forse sarebbe meglio lasciare il suono del duplice “amen” come fece l’evangelista che volle farci giungere il suono dell’ “amen” ebraico con tutte le implicanze che esso contiene. Gesù con quegli “amen” sta rivelando qualcosa di essenziale alla fede dei suoi discepoli, alla fede di chi è deciso a seguirlo. Le immagini in questo testo si accumulano con una potenza ed una frequenza che, possiamo dire, non hanno l’eguale in tutto il Quarto Evangelo: l’ovile, la porta,  il guardiano, il pastore, le pecore, la voce del pastore, il ladro, il mercenario, il sacrificare la vita … Ogni parola di questo testo apre mondi straordinari legati alla rivelazione della Prima Alleanza ed alla rivelazione che in Gesù ci è data del volto del Padre che l’Evangelista ha posto, fin dal principio dell’Evangelo, come programma del suo scritto (cfr Gv 1, 18).

            Il discorso di questo decimo capitolo andrebbe letto nella sua integrità per coglierne tutta la ricchezza e potenza; oggi ne leggiamo i primi dieci versetti riservando agli anni B e C il completamento del discorso; da un lato questo limita l’ampiezza del discorso che Giovanni desidera consegnarci, dall’altro, però, ci permette di soffermarci su dei punti che meritano un’attenzione più precipua.

            L’inizio del discorso che leggiamo quest’anno si concentra su una prima affermazione di Gesù: se Lui è il pastore, in qualche modo, è prima ed anche la porta attraverso cui deve passare ogni vero cammino di discepolato. Il movimento di questo cammino è segnato dall’ascolto, dalla sequela e dalla conoscenza del Signore. Chi passa per quella porta che è Gesù lo fa perché è capace di ascoltare la sua voce e lo segue perché conosce la sua voce cogliendo la differenza rispetto alle altre voci che tentano di prendere possesso del suo cuore.

            L’ascolto della voce si apre alla conoscenza che è una conoscenza reciproca tra pastore e pecora; se queste, infatti, conoscono la voce del pastore, il pastore conosce ciascuna per nome, le chiama una ad una per condurle fuori; la stessa sequela della pecora è generata dalla conoscenza della voce e dalla coscienza di appartenere al pastore (non gli sono estranee).

            Le pecore di questo pastore riconoscono la voce del pastore perché, in fondo al cuore, ogni uomo ha la capacità di riconoscere la voce della verità  e distinguerla dalla voce della menzogna. Le pecore conoscono il pastore perché hanno visto i suoi gesti di liberazione, hanno ascoltato la sua parola, hanno colto la libertà che egli dona loro rendendole capaci di amare, di sperare, di osare. Lo conoscono perché sanno di essere conosciute ed amate; Gesù è il pastore che “sa quello che c’è in ogni uomo” (cfr Gv  2,25).

            Nel capitolo precedente Giovanni ci ha mostrato l’itinerario di uno che è diventato pecora del gregge di questo pastore: il cieco guarito. Quell’uomo ha fatto proprio un cammino di conoscenza di quel pastore che è venuto a trarlo fuori dalle sue tenebre perché lo conosceva; un pastore che è venuto a cercarlo quando i “falsi pastori” l’hanno cacciato fori dall’ovile; l’ex cieco ha cominciato ad avvertire la differenza tra la verità e la menzogna, tra la libertà e la schiavitù, tra la vita e la morte; ora è uno che il pastore ha portato ad un esodo di liberazione. Quello che il capitolo del cieco nato aveva mostrato ora Giovanni lo fa dire proprio a Gesù; le sue parole danno voce a quello che ha già fatto e annunziano quello che ancora farà; nel capitolo successivo ci sarà ancora una “pecora” già del suo gregge che è andata a perdersi nientemeno che nella morte ed il pastore la chiamerà per nome e la trarrà fuori dalle tenebre della tomba: “Lazzaro qui fuori!! (cfrGv 11, 43).

            Il pastore, però, come dicevo, è anche la porta. In questo accumulo di significati Giovanni vuole che entriamo per cogliere la ricchezza del mistero di Cristo che è venuto a visitarci. La porta è una realtà che interrompe il muro che il mondo stringe attorno all’uomo cercando di renderlo prigioniero ed impotente; la porta che è Cristo è la via attraverso cui i discepoli possono uscire a libertà, attraverso cui possono raggiungere la vita; solo passando per Lui possono iniziare a seguirlo; dove? E’ vero che il pastore conduce alla vita, che la porta che è Lui è un varco sulla vita ma sempre per una via paradossale; infatti la vita cui ci conduce è “dare la vita”! La vita ha il prezzo della vita del pastore; Gesù dichiara che è venuto perché le sue pecore abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza; un’abbondanza di vita che Lui dona offrendo tutta la vita e perdendola per amore; qui il pastore assume già i tratti dell’agnello; è l’agnello della Pasqua nel cui sangue c’è la liberazione dalla morte e dalla schiavitù (cfr Es 12, 7.13), è l’agnello dello Yom Kippur che porta i peccati del popolo che, nel suo sangue, mette a contatto quei peccati con la bruciante misericordia di Dio che distrugge il peccato (cfr Eb 9, 6-28 e Lev 16, 2-29).

            Gli altri, che non sono pastori e che Gesù ha espressamente chiamato ladri, sono porte che si aprono sulla morte, vengono solo per rubare, sacrificare e distruggere; importante il secondo verbo che, più che significare semplicemente “uccidere” significa “sacrificare” (è il verbo “thúo” che significa “bruciare come sacrificio”, “offrire”, “immolare”). Quelli che non passano per la porta che è Gesù e la sua via vengono nel recinto delle pecore per sfruttare, per rubare e per immolare le pecore nel loro tempio, nel tempio elevato alla loro stessa potenza. Gesù sta parlando dei falsi messia che si presentano come salvatori dell’uomo … certo, quelli del suo tempo ma quelli di ogni tempo … quelli che sacrificano gli altri sui loro altari, perfino in nome di Dio, perfino in nome della verità e della libertà … a volte usano il nome di Dio per far violenza e togliere agli uomini libertà e vita … Il pastore che è Gesù è invece colui che sta per offrirsi Lui stesso come agnello; è Lui che si offrirà in sacrificio per dare vita e libertà. E’ Lui che così fa uscire le pecore del suo gregge, le immette in un esodo verso la terra promessa della nuova umanità che Lui ha mostrato ed inaugurato.

            I discepoli, scrive l’autore della Prima Lettera di Pietro nella seconda lettura, possono seguire le orme del Crocefisso … le sue orme mostrano la via verso il Padre, seguendo quelle orme si passa per Lui e si giunge alla vita nuova che a tutto da senso; una via certo di lotta e di lotta coraggiosa ma una via di senso e di profonda bellezza perché via pienamente umana!

            Se avremo guardato a questo Pastore che è Gesù potremo poi pensare a come dare noi stessi la vita per Dio e per i fratelli, potremo capire come realizzare le nostre vocazioni, come dire sì alla voce di Dio che chiama … solo dopo aver guardato a questo Pastore che è Gesù si potrà cogliere a pieno cosa significa essere pastori nella Chiesa … se si guarda a Lui si capirà che essere pastori comporta solo una cosa e non a parole: dare la vita ed aprire vie di vita ai fratelli.

P. Fabrizio Cristarella Orestano

Il buon pastore
(mosaico IV secolo; Aquileia Basilica)