QUARTA DOMENICA DI PASQUA

25 Aprile 2021/Anno B

At 4,8-12; Sal 117; 1Gv 3,1-2; Gv 10,11-18

            C’è una conoscenza che passa da Dio al mondo e che dal mondo dovrebbe tornare a Dio.

            La conoscenza fa il discepolo!

            Il mondo, di contro, è caratterizzato dalla non-conoscenza di Dio!

            Da questa non-conoscenza nascono tutte le derive del mondo.

            Purtroppo nella predicazione e nella prassi cristiana, da un certo momento in poi, si è voluto saltare “a piè pari” questa necessità della conoscenza… certo per paure legate all’eresia gnostica, che ad un certo punto parve dilagare, la comunità cristiana cominciò a non parlare più di gnosis (“conoscenza”), a non parlare più di questa necessaria relazione di conoscenza tra il credente ed il Signore. Si è creato così un cristianesimo in cui si è obliato che al primo posto, per una vera fede, per una vera adesione al Dio dell’Evangelo, è necessaria la conoscenza di Lui.

            Una conoscenza che certo non è una conoscenza intellettuale o di tipo filosofico (che era quella che la gnosis ereticale predicava!) ma è una conoscenza “penetrativa”, esistenziale, esperienziale… Insomma non si può appartenere al Dio della storia se non si è fatta esperienza storica, concreta, vitale di Lui. Il Dio della storia è Colui che ha una tale relazione con la storia degli uomini da assumerla definitivamente nell’Incarnazione del Figlio.

            La testimonianza apostolica, come la testimonianza dei padri nella fede di Israele, è testimonianza di un incontro che salva, di un incontro che fonda una conoscenza, la nostra, e si fonda sulla conoscenza che Dio ha di ciascuno di noi.

            Non si può essere autenticamente discepoli di Cristo se non si mettono le fondamenta su questa conoscenza.

            I testi della Scrittura di questa domenica mi pare che abbiano questo sfondo comune: la conoscenza di Cristo è via di salvezza. L’espressione “conoscenza di Cristo” bisogna intenderla in due direzioni: è la conoscenza che Cristo ha di me ed è la conoscenza che io posso avere di Lui.

            Pietro nel racconto di Atti, che è la prima lettura di oggi, annunzia un nome in cui c’è salvezza: il nome di Gesù, il Crocefisso Risorto. Chi conosce quel nome, chi conosce la sua storia pasquale, può sperimentare la salvezza. Pietro lo dice chiaramente, non ci si può affidare ad altri nomi, ad altre conoscenze: «Non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati». Bisogna, dunque, conoscere quel Nome. Che vuol dire? Significa aver fatto esperienza di incontro e dunque di salvezza con Gesù; significa aver ricevuto un annunzio che ti ha toccato le fibre profonde dell’esistenza, un annunzio che segna un confine tra un “prima” e un “dopo”; finché avremo cristiani, o sedicenti tali, che non hanno questa cesura tra un “prima” e un “dopo”, e dunque una coscienza di un incontro-conoscenza che salva, non avremo davvero la Chiesa di Cristo. Questo ci deve essere chiaro: non si nasce cristiani (anche se si è battezzati in fasce!), lo si diventa assumendo l’Evangelo e questo può avvenire solo per via di conoscenza vitale, esperienziale, vitale, solo per la via di una conoscenza che “brucia”!

            Al cuore del passo di Giovanni che oggi si proclama c’è Gesù che si autorivela come il Pastore bello. Un pastore bello-buono perché capace di fare una cosa straordinaria: «dare la vita per le pecore», un dare la vita che non è per un “tutti” indistinto ma è per “ognuno”; perché Lui conosce le sue pecore e questa conoscenza apre alla conoscenza di Lui. Il Quarto Evangelo qui diventa (come accade spesso!) davvero vertiginoso perché questa reciproca conoscenza è ricalcata sulla conoscenza che il Padre ha del Figlio ed il Figlio ha del Padre. La comunione trinitaria, che è la vita trinitaria, è la conoscenza che il Padre ha del Figlio ed il Figlio del Padre; una conoscenza così è quella a cui sono chiamati coloro che appartengono al gregge del Pastore bello-buono…e lo sguardo del Pastore si allarga ad ogni uomo e Giovanni lo aveva già detto fin dal secondo capitolo dell’Evangelo: «egli conosceva ciò che c’è in ogni uomo» (cf. Gv 2,25); i confini di questa conoscenza del Pastore sono infatti grandi come quelli dell’umanità: «E ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore».

            L’ascolto genera la conoscenza e la conoscenza genera l’amore; questa è una via chiara per il discepolato ed il Quarto Evangelo lo sottolinea con vigore. La conoscenza spalanca le porte ad un Signore che dona la vita; quando si conosce un Signore così, cosa fare se non aprirgli le porte? Giovanni per ben due volte in questi pochi versetti di questa domenica ci dice che il Pastore bello «offre la vita» (in greco usa il verbo tίthemi che significa “deporre” ed usa la parola psychèn per dire vita e non semplicemente bίov; questa infatti è la vita materiale soltanto, psychèn è la vita con tutto ciò che la anima, è un modo per dire “tutto l’uomo”); è questo deporre la vita ciò che lo rende kalós, cioè bello-buono.

            È una bellezza strana, è una bellezza che non ci  “convince” razionalmente, ma ci vince!

            In fondo il mistero pasquale vuole questo: che ci lasciamo vincere da quell’amore tanto oltre ogni nostra immaginazione, oltre ogni logica “convincente”.

            Chi riesce a conoscere questa bellezza entra nella novità di vita che essa genera, la possibilità di amare «come lui ha amato» (cf. Gv 13, 35-35)e questo è la salvezza, questo è il senso, questo è per il discepolo diventare anch’egli kalós, bello-buono, come il Pastore che depone la sua vita.

P. Fabrizio Cristarella Orestano

Atelier d’art de Bethléem: Il Buon Pastore
(Scultura in pietra).