5 Ottobre 2025/ Anno C

Ab 1,2-3;2, 2-4; Sal 94; 2Tm 1,6-8.13-14; Lc 17, 5-10
L’evangelo, in quanto buona notizia dell’amore di Dio per l’uomo, mentre narra di un Dio che, instancabilmente, si mette sui passi (spesso distorti!) dell’uomo, per chiamarlo alla comunione con Lui, dice pure (e in modo tutt’altro che secondario!) le esigenze radicali della sequela di Gesù di Nazareth.
E se seguire Cristo richiede – come a più riprese l’evangelista Luca ricorda alla sua comunità – un uso libero dei beni e una disponibilità alla condivisione di essi – tramite cui si esprime in modo concreto l’attenzione all’altro e l’assunzione della sua miseria –, la via della vita nuova è resa possibile solo dall’ascolto obbediente di Dio e della Sua parola.
È proprio questo ascolto a porre il credente dinanzi a una domanda, che è per lui quella essenziale: la domanda circa la propria fede! Ci si fida di Dio? Come è la propria fede? Gli apostoli comprendono bene che il nucleo di tutto è lì e per questo chiedono a Gesù: «Accresci in noi la fede!».
La risposta dura di Gesù alla richiesta dei discepoli mira a chiarire che la fede non è questione di quantità, ma di qualità.
Sul versante quantitativo, di fede ne basta quanto un granellino di senape che, come già dice l’evangelista Marco, «è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno» (4,31).
Non è questione di quantità perché, dice Gesù, già una fede così minuscola può fare cose immense.
“Fede grande” (e altrove Gesù rimprovera i discepoli per la loro “poca fede”, come in 12,28) non è una fede quantitativamente ponderabile, ma è semplicemente “fede”, vale a dire una fede autentica: la domanda sull’accrescimento della fede, dunque, va intesa anzitutto come domanda sulla autenticità del credere.
Il problema è se c’è fede o meno e se, da un lato, la fede è dono, essa è, nondimeno, responsabilità, che esige la scelta sempre rinnovata di credere.
Per questo, in Lc 9,41, Gesù rimprovera i suoi ascoltatori, definendoli generazione incredula (e nel parallelo di Marco, il padre dell’epilettico indemoniato pone a Gesù la vera domanda: «Credo; aiuta la mia incredulità!»: Mc 9,24).
Quando c’è la fede c’è tutto, perché, se è vera, essa trasforma la vita: se è vera, essa diviene concreta operosità. La vita di fede non può essere vita di stasi.
In fondo bisogna capire che il parlare di fede e di opere ha un fondamento soltanto nelle patologie della fede.
Una fede malata (cioè, che non è vera adesione al Signore) è senza opere, senza concretezza.
Un’ autentica adesione al Signore rende il credente, come Gesù, “schiavo”, per amore, dei fratelli.
Ecco perché il detto sul granellino di senape si compie nel discorso circa gli schiavi inutili (e qui Luca – nel solco della tradizione paolina di cui è erede – usa il termine “schiavo” con un’accezione positiva, evidentemente in contrapposizione a una schiavitù negativa, che è quella nei confronti del peccato).
Come lo schiavo appartiene al suo padrone che fa di lui ciò che vuole (tale era la prassi comune nell’antichità), così lo schiavo del Signore appartiene al Signore, che lo porta per le sue stesse vie, facendolo suo collaboratore per trasformare la storia con un nuovo modo di essere uomo (quello “vero”, da sempre pensato da Dio): amando senza nulla pretendere.
D’altro canto, il Dio di cui parla l’evangelo è un Dio che in Gesù sta in mezzo agli uomini «come colui che serve» (12,27).
L’immagine degli “schiavi inutili”, dunque, vuole dire qualcosa non del comportamento di Dio, ma di come deve essere il comportamento del discepolo a imitazione di quello del maestro: un comportamento senza calcoli, né pretese, senza contratti o patti.
Lo schiavo deve ricordare che è “inutile”, non nel senso che “non serve”, ma nel senso di senza utile, senza profitto, senza guadagno.
Non si sta con Cristo, schiavi di Lui e come Lui, per ricevere un utile, per accumulare e accampare meriti per la salvezza.
Gesù libera l’uomo anche da quell’ossessione “religiosa” che è la preoccupazione per l’accumulo dei meriti.
In tal senso, essere schiavo è per il cristiano via vera di sequela, perché via di libertà.
P. Gianpiero Tavolaro
