23 Novembre 2025/ Anno C
2Sam 5,1-3; Sal 121; Col 1, 12-20; Lc 23, 35-43
L’anno liturgico si chiude con una solennità che intende riportare l’attenzione della comunità credente sulla meta verso la quale la storia corre: la piena regalità di Cristo, l’affermazione della sua Signoria sugli uomini e sul cosmo intero.
Quella di Cristo Re, però, non è solo celebrazione dalle tinte fortemente escatologiche: il riconoscimento della meta è richiesto, infatti, perché attivi una tensione dell’oggi della vita del credente verso quel compimento nel quale si incontreranno l’uomo e Dio; un compimento che giungerà al di là di ciò che l’uomo sarà in grado di realizzare, ma non per questo ignorando ciò che di fatto l’uomo ha scelto e costruito.
È esattamente in questo che sta la forza giudiziale della Signoria di Cristo: il Cristo giudicherà l’uomo non perché Dio desideri la condanna e la perdizione dell’uomo, ma lo giudica perché ne rivelerà il cuore e le intenzioni profonde e, nel farlo, completerà nell’amore ciò che l’umana debolezza non ha saputo portare a pienezza.
Il giudizio di Dio è, dunque, una ineffabile sintesi di verità e amore, di giustizia e misericordia, che il credente non attende solo alla fine dei tempi (anche se solo allora il giudizio sarà ultimo e definitivo): è già nell’oggi che la consapevolezza di quel giudizio deve animare e muovere la vita di ogni discepolo del Signore e questa consapevolezza nasce dall’aver sperimentato nel concreto della propria esistenza la forza di quel giudizio, la cruda efficacia della sua verità e la dolce carezza del suo amore!
In questo orizzonte, la liturgia della Chiesa, in linea con la tradizione della Scrittura, non teme di parlare di Gesù come di un “re”, per quanto la figura del sovrano risulti oggi piuttosto anacronistica e, in ogni caso, carica di una funzione simbolica e rappresentativa più che portatrice di un autentico potere. Certo è che la regalità di cui parla la Scrittura – per quanto l’esperienza di Israele sia stata fallimentare da questo punto di vista – è sempre una regalità “messianica”, diversa dalle forme di monarchia di questo mondo, e il sovrano è colui che è chiamato a incarnare la cura di Dio per il suo popolo, cura che si traduce nel compito di pascere il popolo e di correggerlo, riportandolo continuamente dalla dispersione (al seguito degli idoli) al vero culto.
La regalità di Cristo intende, dunque, manifestare ciò che la regalità veterotestamentaria non ha saputo significare fino in fondo e, a questo scopo, la liturgia di oggi propone con crudo realismo l’alterità della regalità di Cristo, liberandola da ogni esito trionfalistico e di dominio e, al tempo stesso, liberando la sua Chiesa dalla tentazione di farsi regno mondano, stendendo tentacoli di supremazia sui regni e sugli uomini.
Questo re è altro perché non salva sé stesso! Salva gli altri, i suoi torturatori, quelli che lo insultano: salva ciascuno!
Per ben tre volte la tentazione lo aggredisce sul paradossale trono della croce: «Salva te stesso!».
La tentazione gli ricorda che ha già operato la salvezza di tanti infelici, di tanti poveri, di tanti disprezzati; gli ricorda che Egli può!
Ma Gesù sa che quel potere non va esercitato “dall’alto”, bensì stando accanto, mettendosi ai piedi dell’altro, assumendone fino in fondo la miseria.
E così salva perdonando e nel perdono lascia che la verità della miseria dell’uomo si incontri con la profondità abissale dell’amore di Dio: è questo il paradosso che, in ultima istanza, la croce intende significare.
Se salvasse sé stesso, Gesù rinnegherebbe questo paradosso. E così, da re paradossale, Gesù rimane confitto in croce in un’impotenza totale e sceglie di salvare e non di salvarsi, di perdersi per non perdere.
Sulla croce, perdendo sé stesso e donando salvezza senza salvare sé stesso, Gesù è davvero re, perché “domina” davvero: domina quella tremenda philautía che è amore di sé fino alla dimenticanza degli altri e di Dio e domina, con l’amore e la misericordia, l’odio che lo sta aggredendo inchiodandolo al legno dei maledetti.
Alla fine dell’Anno liturgico, la meta che è proposta al credente è, ancora una volta, una via paradossale, capace di contraddire le vie del mondo, non per un difetto di umanità, ma per offrire a ciascuno la possibilità di una umanità in pienezza: nella verità e nell’amore.
P. Gianpiero Tavolaro
