Is 11,1-10; Rm 15,4-9; Mt 3,1-12
In questa seconda domenica di Avvento la liturgia ci proietta all’inizio del Vangelo attraverso il capitolo 3 di Matteo, che racconta della predicazione di Giovanni Battista: egli prepara la via alla venuta di Gesù e al suo ministero. Anche la prossima domenica sarà dedicata a Giovanni (Mt 11,2-11): Giovanni manderà a chiedere a Gesù se è lui quello che “deve venire” e, nel rispondere, Gesù darà testimonianza su Giovanni. Nel brano di oggi, invece, sembra che ci sia Giovanni senza Gesù; in realtà, Matteo ci lascia molti indizi per far comprendere che le due figure vanno lette insieme, la loro “venuta” è il segno, è l’inizio di un tempo nuovo.
C’è un verbo importante che emerge dal testo greco ed è paraghìnetai, che si traduce con “venne”; allo stesso modo, poco più avanti in Mt 3,13 lo stesso verbo è usato per dire che Gesù “venne”. Questo venire di Giovanni e il venire di Gesù, dunque, sono in parallelo e in maniera chiara l’evangelista usa due volte la stessa espressione, una volta in bocca a Giovanni e la seconda in bocca a Gesù: «Convertitevi, viene il regno dei cieli» (Mt 3,2 e Mt 4,17).
Il venire, l’arrivare, l’avvicinarsi, il sopraggiungere… Viene il regno dei cieli, attraverso la venuta di due uomini, Giovanni prima e Gesù dopo. Ma colui che viene dopo, dice Giovanni, è più forte di me… La liturgia vuole suggerirci, allora, che per essere proiettati al ritorno finale del Signore, secondo l’invito del tempo di Avvento, dobbiamo ripensare a quando il Signore è già venuto, cambiando il tempo e la storia attraverso la vita e il ministero di Gesù di Nazareth. Una venuta escatologica che prepara quella ulteriore e definitiva verso la quale la vita del cristiano è orientata. Perché ciò avvenga davvero, perché la vita cristiana sia effettivamente orientata secondo Cristo e l’attesa del suo ritorno, è necessario allora tornare a quella prima venuta e a ciò che con essa i Vangeli ci raccontano.
Il racconto di Matteo ci porta al momento in cui “venne” Giovanni, determinando e aprendo un tempo di novità nel quale urge convertirsi perché sta per venire la signoria di Dio; quello che l’apocalittica attende, cioè che Dio intervenga nella storia degli uomini rimettendo in ordine le cose e creando la giustizia, inizia già ora perché la signoria di Dio – altro modo per dire “regno dei cieli” – sta per venire: Giovanni lo annuncia, in Gesù avviene. Tutto questo è improvviso ma allo stesso tempo è promesso e preparato: la venuta di Giovanni ha profonde radici nelle promesse e nelle visioni dei profeti, dunque nella Scrittura. Matteo è l’evangelista che sottolinea continuamente il profondo radicamento di tutta la vicenda di Gesù nella Scrittura di Israele: ci racconta e ci presenta tutto attraverso questa chiave, la chiave dell’Antico Testamento. Senza tale chiave, non si apre la porta della rivelazione di Dio in Gesù. Dunque, anche la vicenda di Giovanni potrebbe essere incomprensibile e poco significativa senza il riferimento alle Scritture di Israele. Se invece conosciamo Isaia, per esempio, tutto diventa più chiaro: così siamo rimandati a Is 40,3 direttamente dal testo di Matteo: la voce che grida nel deserto di preparare la via alla “venuta” ora diventa Giovanni, il suo operato è stato promesso e prefigurato. Allo stesso modo, anche la liturgia ci fa leggere un passo di Isaia (11,1-10) che rende più chiaro quale sia la novità che questi due uomini stanno venendo a portare, una novità che è un cambiamento radicale. Allora, «tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione», dice Paolo nel brano della lettera ai Romani che leggiamo oggi. L’istruzione vuole aiutarci ad aprire gli occhi sull’agire di Dio, a conoscerlo riconoscendo il suo operare da lontano per la salvezza di noi uomini.
L’annuncio di Giovanni, ci dice il racconto di Matteo, richiama tanti che vanno da lui per farsi battezzare e confessano il peccato. Però, tra questi, Giovanni riconosce uomini non sinceri, che stanno lì come gli altri ma che in realtà non si mettono in gioco davvero e sentendosi rassicurati dall’essere figli di Abramo, credono di non dover affrontare il giudizio. Farisei e sadducei non stanno spesso insieme nel Vangelo, ma qui vengono abbinati: i primi, nell’amore per l’osservanza della Legge e della tradizione, rischiano di perdersi pensando che dalla loro osservanza venga la salvezza; i secondi, noti nelle controversie con Gesù per non credere nella Resurrezione, rischiano di rimanere confinati nei limiti di questo mondo terreno, nei limiti della mondanità in cui non c’è veramente posto per Dio. Eppure le parole di Giovanni sono durissime: queste due condizioni di queste tipologie di uomini – tra i quali potremmo esserci anche noi – possono portare il cuore a perdersi, a scegliere malvagità e cattiveria, a non lottare con queste spinte che abitano ciascuno, ma a lasciar loro spazio, ritenendosi addirittura giusti.
Le parole che Matteo mette in bocca a Giovanni giocano con i temi di generazione-paternità-portare frutto; da una parte viene presentata la presunzione di avere Abramo per padre, come se ci fosse una salvezza predestinata dalla stirpe alla quale si appartiene e come se a questo potesse fare seguito qualsiasi comportamento; dall’altra parte, Giovanni il profeta (presentato come tale anche dagli accostamenti degli abiti a quelli di Elia in 2Re 1,8), svela che essi sono “generazione di vipere”, figli di vipere, essi si lasciano generare dal male, che circola nell’ingiustizia, nella divisione, nell’egoismo e nel disamore… Eppure, questo non è un destino inesorabile, l’appello di Giovanni per questi uomini – e per noi – è proprio quello della conversione: anche loro, se volessero, potrebbero portare frutto. Giovanni è mostrato accorato e forte quando chiede loro di mostrare frutti della conversione (Mt 3,8)!
C’è un giudizio imminente, Giovanni sa che sta per avvenire qualcosa, che qualcuno sta per arrivare, qualcuno che battezzerà nel fuoco dello Spirito, la sua missione è annunciare questo. C’è ancora tempo per convertirsi ma poi, all’improvviso, non ci sarà più tempo perché la scure è già posta alla radice degli alberi. Il messaggio dell’Avvento, radicato nel tempo della prima venuta del Signore, riguarda proprio il tempo: mentre pensiamo di avere tanto tempo avanti a noi, per cambiare, per convertirci, per mettere Dio al primo posto, per rinunciare alle opere delle tenebre, improvvisamente quel tempo finisce e se intanto non ci saremo convertiti, la malvagità che abbiamo scelto si cristallizzerà… Il Signore verrà alla fine, il Signore è già venuto, questo venire vuole portarci salvezza, vita e gioia. Però Egli non può farlo senza di noi, senza la nostra volontà, senza la nostra scelta di “cambiare mente”: il verbo della conversione al v.2 non indica solo una conversione morale ma prima di tutto un cambio di mentalità.
La lettura di Isaia dal capitolo 11, suggerita in questa domenica, porta la nostra attenzione sul punto di svolta, quello che permette davvero all’uomo la conversione: «la conoscenza del Signore».
Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno
in tutto il mio santo monte,
perché la conoscenza del Signore riempirà la terra
come le acque ricoprono il mare.
Dopo aver annunciato di una novità che sorge, un germoglio che spunterà dal tronco di Davide, uno sul quale riposerà lo Spirito del Signore, che giudicherà con giustizia, che permetterà l’instaurarsi di una realtà di pace quasi incredibile da credere – il lupo pascolerà con l’agnello … –, una realtà nella quale sembra che l’ordine violento della natura è ricollocato in una atmosfera paradisiaca e pacifica, la bellezza di questa promessa si allarga e arriva a toccare tutti perché «la conoscenza del Signore riempirà la terra». Allora, questa “venuta” di uno sul quale riposa lo Spirito del Signore si riversa in un mondo che cambia, in una realtà trasformata perché la conoscenza del Signore cambia il cuore degli uomini. Al centro della conversione, che oggi il Battista invoca per noi, c’è allora l’urgenza di conoscere il Signore, conoscere il suo agire, lasciarsi riempire dalla conoscenza del suo Amore per noi: solo questo può convertirci, cambiando prima mentalità e poi così tutta la vita.
E allora come Chiesa, per prepararci davvero al ritorno del Signore, a quella realtà nuova che Isaia poeticamente ci racconta, possiamo fare solo una cosa veramente, oltre a convertire noi stessi: dare la vita per far conoscere il Signore. Solo questo è necessario! E quando la conoscenza del Signore riempirà la terra, ci saranno cieli nuovi e terra nuova…
Sorella Michela Arnone

(Attorno all’immagine in legno della Santa Madre di Dio Sedes Sapietiae, Mauro Felicani ha dipinto le icone di Mosè, del Re David, del Profeta Elia e di Giovanni Battista: la Torah, rappresentata da Mosè, la sapienza rappresentata da David a cui sono attribuiti i Salmi, la profezia rappresentata da Elia, profezia che si compie nel Battista, ultimo profeta e testimone del Cristo, Agnello di Dio, presente nella storia. Tutti sono accomunati dal tema dell’acqua che richiamano la vasca d’acqua corrente che è ai piedi della Vergine, prima salvata che ci fa fare memoria del Battesimo. Le quattro figure riassumono tutta la Scrittura che tutta conduce al Cristo).