Ap 7,2-4. 9-14; Sal 23; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12

            La grande solennità che oggi si celebra davvero ci dilata il cuore; ma non si tratta solo di contemplare i santi giunti alla meta del cammino e gioire per l’esito luminoso delle loro vite, ma si tratta di sentire che questo esito luminoso è possibile per tutti noi, per tutti i battezzati; è la santità la grande meta della vita cristiana, anzi vorrei dire, è la meta di ogni giorno.

            La nostra chiamata è alla santità!

            Si badi, non una santità relegata comodamente in un indistinto futuro, in un’ora estrema di compimento, ma una santità che si costruisce e si vive giorno dopo giorno. Una santità che sia un’autentica alterità da vivere rispetto al mondo, alterità che può essere solo conformazione a Cristo ed al suo Evangelo.

            La liturgia di questo giorno ci mostra la meta finale nella pagina dell’Apocalisse dandoci una grande speranza con quella grandiosa molteplicità dei santi («Vidi poi una moltitudine immensa») e l’oggi nella pagina delle “Beatitudini” (nella redazione di Matteo) in cui ci appare chiaro che con l’Evangelo e con il Dio di Gesù Cristo non si gioca; le Beatitudini ci mostrano uomini e donne che sanno di essere sì uomini comuni ma scelti da Dio, speciali perché  amati con la certezza che la santità non è solo frutto di una conquista quotidiana ma è frutto della grazia che accompagna davvero chi cerca Dio e desidera che la propria carne sia Evangelo vivente.

            La realtà della nostra vita di salvati è questa e Giovanni, nella sua Prima lettera, ci ha detto con limpida chiarezza che noi «fin d’ora siamo figli di Dio e lo siamo realmente»!

            “Fin d’ora”! Le Beatitudini sono l’Evangelo di questo “fin d’ora”! Le Beatitudini sono un annunzio che il Regno è arrivato…quello che i Profeti intravedevano come il futuro dell’era messianica, per Gesù, è il presente, è l’oggi. I poveri, infatti, sono beati, e già oggi il regno dei cieli è loro; nessuno è escluso da questo regno; non ci sono emarginati, anzi quelli che il mondo emargina sono i primi, i beati.

            Il Regno è venuto perché Gesù ha vissuto le beatitudini e non solo! Le Beatitudini sono “il modo di Gesù di pensare la vita” (Bruno Maggioni). Gesù ha fatto della vita un luogo in cui ha solo sperimentato il dono di Dio; la sua esistenza l’ha letta sempre come dono e ciò l’ha spinto a farsi dono.

            Matteo, dunque, elenca le Beatitudini non per beatificare delle situazioni (che sono, in verità, poco beate!) ma per beatificare degli atteggiamenti; la comunità di Matteo è invitata ad assumere quegli atteggiamenti che hanno radice nella povertà di spirito: il povero, già nella Prima Alleanza, è colui che ha fiducia in Dio e solo in Dio!; il povero costruisce  la pace, rigetta la violenza, ha fame e sete di giustizia, è misericordioso, è puro perché fa sempre corrispondere l’interno del cuore all’esterno della vita; il povero è afflitto. Su quest’ultima espressione (che è la seconda beatitudine) vale la pena soffermarsi: perché Matteo dà tanta rilevanza agli afflitti? Chi sono? Per Matteo l’uomo delle Beatitudini fa propri i problemi del Regno, ne soffre, ne è afflitto; è beato chi concretamente soffre perché la Chiesa è divisa, perché non è sempre segno della presenza di Dio, soffre per i propri peccati; è uno che lotta perché il mondo possa essere altro e lo fa con l’arma più efficace che ha: la sua santità, la sua disponibilità a essere concretamente altro.

            Le Beatitudini, insomma, non sono un generico sentimento buono e positivo ma sono concreti e coraggiosi passi per un’umanità nuova e segnata dalla giustizia, dalla pace; sono concreti e coraggiosi passi per essere “icona” di Cristo Gesù che le Beatitudini le incarnò e ne fece lo stile della propria vita, la sua risposta al Padre da cui tutto, nell’eterno e nella storia, comprendeva d’aver ricevuto.

            La storia della santità nella Chiesa è la storia degli infiniti modi di declinare questo concretissimo essersi compromessi con l’Evangelo; è la storia dei modi sconfinati di incarnare le Beatitudini che lo Spirito ha suscitato con la sua fantasia, con il suo rispetto per le diversità delle persone, con il suo realismo attento alla storia ed ai suoi aneliti.

            Essere santi è costoso ma è per tutti i battezzati; non si può, non si deve desiderare un po’ meno di questo.

            Creati per la santità, redenti dal Santo, non possiamo fare altro che lottare quotidianamente per la santità. Diversamente tutto diventa grigio ed insensato, si smarrisce l’umanità e si assumono volti deformato in cui l’Adam non è più riconoscibile.

            L’alternativa è netta: o santi o meschini, o santi o schiavi, o santi o complici della mondanità e dell’odio, o santi o folli costruttori di una Babele che precipita nella confusione.

            La santità è una scelta di campo.

P. Fabrizio Cristarella Orestano

MEMORIA DEI MORTI IN CRISTO

Gb 19,1.23-27a; Sal 26; Rm 5,5-11; Gv 6,37-40
Is 25,6a.7-9; Sal 25; Rm 8,14-23; Mt 25,31-46
Sap 3,1-9; Sal 41; Ap 21,15a.6b-7, Mt 5,1-12a

La memoria dei morti in Cristo quest’anno cade di domenica e quindi la celebriamo nel giorno della Risurrezione e con più forza del solito proclamiamo che va celebrata non come giorno di tristezza, ma come giorno di risurrezione; un giorno certo segnato da nostalgia per coloro che abbiamo amato e ci hanno amato e che ora sono sottratti ai nostri sguardi e alla nostra prossimità tangibile, ma anche giorno in cui si deve dilatare il nostro affetto e la nostra speranza verso tutti quelli che sono morti; certo, ci sono i fratelli cristiani, quelli che chiamiamo fedeli defunti o meglio morti in cristo (cf. Ap 14,13), ma lo sguardo del cuore oggi dovrebbe ancor più dilatarsi a tutti gli uomini, nostri fratelli, che sono passati per questa storia e che ora sono oltre la storia, anch’essi accolti da quel Dio che in Gesù si è rivelato a noi, senza alcun nostro merito, e che essi non hanno avuto la gioia di conoscere…quanti uomini sono passati per questa nostra terra!

            Quanti hanno amato, sofferto, gioito, peccato, generato, sperato, pianto lacrime nascoste, quanti hanno gridato al cielo, quanti hanno odiato, disperato; tanti sono morti circondati dai loro affetti, amati e pianti da coloro che amavano e che li amavano, ma quanti sono stati schiacciati dall’ingiustizia, dai poteri perversi, quanti hanno languito nella povertà, nella fame, nella nudità; quanti sono stati privati della libertà e della gioia di costruirsi una vita degnamente umana…quanti! Giusti, ingiusti, vittime e assassini, stolti e sapienti…giustiziati da altri uomini che si credevano padroni della vita, stolti e sapienti…quanti non sono neanche riusciti a nascere…quanti sono morti disperati…quanti gettati in battaglia come carne da macello, quanti affogati nei mari o perduti nei deserti…quanti!!

            Oggi dobbiamo portarli tutti davanti a Dio, nella memoria di quelli che abbiamo amato e nella preghiera e solidarietà con tutti quelli che con noi hanno condiviso la nostra umanità! Siamo tutti uomini, tutti solidali nel bene e nel male, tutti parte di una stirpe creata dall’Amore e per l’amore e troppe volte infelice ed infelicitante perché sedotta da cose che con l’amore non hanno nulla a che vedere…

            Oggi deve essere giorno di una grande pietà e giorno di una grande speranza!

            D’una grande pietà perché noi credenti dobbiamo oggi con pietà infinita raccogliere la lacrime di tutti gli uomini che sono morti, i loro rifiuti, i loro orrori e le loro bellezze e deporli tutti davanti a Dio ed al suo amore; d’una grande speranza perché noi e solo noi discepoli di Cristo, sappiamo che Gesù, il Figlio amato del Padre è venuto per essere anch’egli un frammento di questa infinita umanità; Lui l’ Uno divenne frammento per essere accanto ad ogni frammento, per essere “primogenito tra molti fratelli” (Rm 8,29).

            Noi, discepoli di Cristo, abbiamo un compito nella storia, quello di essere testimoni della speranza e, proprio dinanzi alla morte che è per tanti una diga alla speranza, noi abbiamo il compito di testimoniare una speranza nell’insperabile, una speranza che ha radici non in noi ma in Cristo che è il “più forte”, che ha legato il “forte”, che è il potere della morte (cf. Lc 11,21-22). La cosa sorprendente e paradossale è che questo “uomo più forte” è tale perché si è fatto debole fino alla croce per raggiungerci nella nostra debolezza estrema che è la morte. E così ha abitato la morte. Scriveva anni fa P. Ernesto Balducci: «il non-senso che è la morte è stato abitato dall’Amore» e questo ha tolto potere alla morte che è suprema espressione dell’odio e del peccato.

Ricordiamo sempre che la Scrittura fa entrare in scena la morte quando Caino uccide Abele (cf. Gen 4, 8), racconto potente dell’origine della morte: essa deriva dall’odio e dal peccato; la morte è creata dall’uomo che si è andato a gettare negli abissi della lontananza da Dio…Dio è la vita, come ha scritto l’autore del Libro di Giobbe, Egli è il Redentore, riscatta perché è vivo ed ha l’ultima parola sull’orrore della morte. La certezza di fede di Giobbe è diventata reale e storica in Gesù che «ha fatto la pace» ed ha vinto la morte «grazie al sangue della sua croce» (Col 1,20).

Il nostro compito è quello di “sperare per tutti”, come scriveva von Balthasar; sperare per quelli che sono morti senza speranza, per quelli che sono morti nel male, nel non-senso e nell’odio…sperare per quelli che non hanno conosciuto motivi di speranza; per quelli che hanno conosciuto solo il male, per quelli che, non amati, non hanno saputo amare…

            Gesù, nel passo del Quarto Evangelo che leggiamo oggi, ci rivela ancora il cuore del Padre: «il Padre vuole che io non perda nulla di quanto mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno» …e il Padre gli ha dato tutta l’umanità, ogni uomo, di ogni tempo e per ognuno di noi il Padre ha un solo sogno: la vita! Non una vaga immortalità ma la risurrezione! Questa è l’autentica fede cristiana: la certezza che tutto ci verrà ridato, anche questo nostro corpo con cui abbiamo attraversato la storia, quel corpo segnato dalle nostre vicende, dai nostri peccati, ma anche dai nostri slanci e speranze; tutto ciò che la morte ci strappa ci verrà restituito dall’amore di Dio in Cristo Gesù!

A Cristo eleviamo oggi l’inno di lode per la sua Croce e la sua Risurrezione, a Lui, con amore solidale, presentiamo tutti gli uomini nostri fratelli che hanno calpestato questa terra stupenda e terribile e che sono giunti a quell’oltre che Lui abita…da parte nostra gridiamo quella grande speranza che Paolo proclama ai cristiani di Tessalonica: «Saremo sempre con il Signore!» (1Ts 4,17).

Oggi allora non è giorno di tetra mestizia, ma giorno di lieta speranza; certo è giorno pure di nostalgia, come dicevo, ma di una nostalgia che sa che ogni lontananza sarà colmata da Cristo e che ogni iniquità troverà le sue braccia spalancate in una misericordia che noi non riusciamo neanche a immaginare o a sognare!

A quella misericordia consegniamo tutti…tutti…tutti!

P. Fabrizio Cristarella Orestano

Nella mano del Signore (icona contemporanea)