26 Ottobre 2025/ Anno C

Sir 35, 12-14.16-18; Sal 33; 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18, 9-14
Per quanto possa risultare anacronistica e lontana dal sentire dell’uomo contemporaneo, la dimensione della preghiera resta una dimensione profondamente antropologica, oltre che teologica: essa, infatti, dice necessità di apertura all’altro, impossibilità di ridurre e di risolvere tutto entro l’angusto orizzonte del proprio io, accoglienza del proprio limite e capacità di dare voce al proprio mondo interiore.
La preghiera – intesa come parola (perfino come domanda) rivolta a un altro – esprime un’attitudine di apertura fiduciosa, senza cui la vita non sarebbe propriamente umana: si parla, infatti, e soprattutto si chiede solo a colui di cui si ha fiducia, perché da lui ci si sente amati. Senza e al di fuori di questa dimensione umana del pregare, la preghiera rivolta a Dio rischia di divenire puro e astratto formalismo, che nulla ha a che vedere con ciò che si è e che si è chiamati a essere: a partire, invece, dai suoi risvolti antropologici, la preghiera rivolta a Dio si carica di vita, si riempie (e riempie) di senso, perché nasce e si nutre all’interno di una relazione intima con quell’Altro che è, per eccellenza, colui di cui ci si può fidare, perché ci ha amati per primo (cf. 1Gv 4,19).
Per questo, l’autentica preghiera cristiana non richiede un luogo fisico particolare, un tempio o un edificio di culto specifici; la preghiera cristiana avviene in Dio, stando in Lui, dimorando in Lui: questo è il luogo della preghiera, ma anche, al tempo stesso, il motivo della lode che anima ogni vera preghiera.
Lode per qualcosa che Dio ha fatto e fa per l’uomo e lo fa in modo totalmente gratuito, a prescindere da qualunque “merito”.
Entro tale prospettiva, risulta chiaro che la parabola del fariseo e del pubblicano intende presentare due personaggi-tipo, due paradigmi che incarnano la possibilità e la capacità o meno di pregare per davvero.
Gesù racconta questa parabola per presentare due modi di essere uomo davanti a Dio e davanti agli altri uomini e del cuore dei due uomini protagonisti della parabola la preghiera è solo uno specchio.
La preghiera del fariseo è quella dell’uomo “religioso”, che si percepisce impeccabile, infallibile, irreprensibile e così, anche se la sua preghiera inizia con un rendimento di lode a Dio («O Dio, ti ringrazio»), il centro di quella preghiera resta il proprio “io”.
Il fariseo, infatti, ringrazia per sé: non, eventualmente, per quello che Dio ha fatto in lui, ma per quello che egli è e per quello che egli non è.
In tal modo la preghiera diventa un monologo, che rivela non la comunione, ma la distanza tra lui e Dio!
Un monologo nel quale trova spazio il disprezzo per l’altro, per quell’altro concreto che è quel pubblicano che gli sta accanto nel tempio, ma del quale egli non vuole e non sa farsi prossimo.
La condizione del fariseo si rivela così “tragica”: egli crede di pregare, ma non prega; crede di potersi vantare davanti a Dio della sua giustizia, ma tornerà a casa senza giustificazione. Accanto a lui, però, c’è un altro, un pubblicano: costui è entrato nel tempio a testa bassa.
Egli non ha nulla da portare a Dio, se non la sua miseria, il suo peccato, i mille compromessi che ha fatto con sé stesso e con la parola della Torah: questo uomo è e si percepisce a mani vuote davanti a Dio e quelle mani le usa solo per battersi il petto, capace di riconoscere che è lì, nel suo cuore fragile e incline al male, la causa di ogni sua miseria.
Ed è per questo che le parole che escono dalle sue labbra sono una richiesta di perdono: «O Dio, abbi pietà di me peccatore».
Lo sguardo del pubblicano non si posa sugli altri, ma solo su Dio e sulla miseria della sua vita: sono l’ammissione della propria miseria e l’apertura alla misericordia di Dio che consentono a questo uomo di tornare a casa giustificato.
Ciò che l’evangelo intende mostrare non è, qui, il modo migliore di pregare, ma la verità con cui si sta davanti a Dio.
Il fariseo non sa la verità né di Dio, né di sé stesso, perché è ubriaco di sé; il pubblicano, invece, non sa altro che la verità della propria miseria e la speranza nella misericordia di Dio.
Prima di correggere la preghiera, dunque, è necessario correggere la vita: solo chi ha il “coraggio” dell’umiltà – che è sempre verità su sé stessi – può “volare alto”. «Chi si umilia sarà innalzato» (Lc 14,11).
P. Gianpiero Tavolaro

(dalla serie di 76 stampe illustrative della parabole evangeliche, 1908)