19 Ottobre 2025/ Anno C
Es 17, 8-13; Sal 120; 2Tm 3, 14-4,2; Lc 18, 1-8
«Diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai».
La parabola della vedova e del giudice iniquo è, per dichiarazione esplicita di Luca, una parabola sulla preghiera, tema caro al terzo evangelo: al capitolo undicesimo, infatti, Gesù già ha detto come pregare, sia nell’insegnamento del Pater – sui contenuti essenziali della preghiera – sia nella parabola dell’amico importuno – sull’atteggiamento di fiduciosa e instancabile domanda che deve animare la preghiera.
Protagonista della parabola narrata da Luca al capitolo 18 del suo evangelo non è la vedova con la sua insistenza, ma il giudice iniquo, figura della quale Gesù si serve per parlare anzitutto del Padre suo sub contraria specie, “per contrario”.
Questo giudice, infatti, è presentato come uno che non «temeva Dio né aveva riguardo per alcuno»: si tratta di un uomo che ha fatto di sé stesso il centro dell’universo, incapace di rispetto verso chi gli sta sopra (Dio), ma anche verso chi gli sta accanto (gli altri).
Se, tuttavia, un giudice di tal fatta alla fine risponde alla domanda della donna, quanto più Dio, che è Padre e che desidera solo il bene per i suoi figli, farà giustizia a coloro che glielo chiedono o a quelli la cui situazione di miseria grida giustizia al suo cospetto!
È fondamentale, per la comprensione della parabola, la domanda della vedova, una domanda tutt’altro che banale, perché questa donna non chiede una cosa qualsiasi, ma chiede giustizia.
In tal modo, ella è l’emblema dei poveri, degli umiliati senza difesa, senza importanza per il mondo che per loro è sempre troppo grande e indaffarato. Rispetto a questa domanda, che abita il cuore di ogni uomo misero o, almeno, attento alla miseria altrui, Gesù ribadisce con la parabola il vero volto di Dio: un Padre che certamente farà giustizia, ascoltando il grido del povero e vedendo la sua miseria (cf. Es 3,7).
Posto, dunque, che Dio farà giustizia e la farà anche prontamente («Li farà forse aspettare a lungo?»), il vero problema è, per Gesù, quello della fede di chi prega: la parabola – come ogni altra parabola – intende allora rispondere a una domanda (chi è davvero Dio?), ma, soprattutto, intende suscitare un’ulteriore domanda (chi è l’uomo di fronte a Lui?).
Se non vi è motivo per dubitare della giustizia di Dio, occorre chiedersi quanto si è disposti a fidarsi di Lui, dei tempi e dei modi del suo intervenire a favore del povero.
Per questo la conclusione del racconto lucano, a una lettura superficiale, potrebbe apparire come il risultato di un fortuito accostamento redazionale alla parabola di una domanda a essa estranea: «Ma il Figlio dell’uomo quando verrà troverà la fede sulla terra?».
La domanda, invece, offre una importante chiave di lettura del racconto parabolico, conducendo il lettore/ascoltatore al cuore di sé e della propria vita di credente.
Come nell’insegnamento del Pater e nella parabola dell’amico importuno, il vero cuore della preghiera è la fede: è nella fede che ci si può accostare a Dio come a un padre, al quale non temere di chiedere; è per fede che si può chiedere a Lui qualcosa, a costo di sembrare, agli occhi dei più, importuni; è per fede che a Lui ci si può rivolgere in maniera insistente e perseverante, senza stancarsi mai.
Il pregare senza stancarsi è allora icona di una fede che si nutre della certezza della giustizia di Dio e che non si stanca di stare alla presenza di quel Dio che è Padre vero e che altro non desidera che fare giustizia ai suoi eletti!
Il problema è crederci… è fidarsi.
Di fronte all’apparente ritardo dell’intervento di Dio, l’evangelo invita a fare del tempo presente il tempo dell’attesa di Dio e di un desiderio di Lui che, nella fede, può essere riempito dalla preghiera.
Nel grembo caldo della preghiera sarà possibile fidarsi di una venuta che indugia, ma che certo brillerà all’orizzonte della storia perché la storia si versi nell’eterno.
P. Gianpiero Tavolaro

(Dalla serie di 76 stampe illustrative della parabole evangeliche, 1908)