12 Ottobre 2025/ Anno C

2Re 5,14-17; Sal 97; 2Tm 2,8-13; Lc 17, 11-19

La lebbra: morbo che sfigura e rende immondi; malattia “fisica”, che la Scrittura assume come simbolo di una condizione “spirituale” – quella della lontananza dell’uomo da Dio –, facendone una metafora potente del peccato, che toglie all’uomo il volto dell’uomo.

La lebbra è, dunque, segno di incredulità e causa di separazione dal popolo santo, secondo un movimento che è opposto a quello della santificazione, ossia della separazione dal mondo per appartenere al popolo santo (cioè, separato); essa è segno della rovina dell’uomo che vuole ergersi a signore della sua stessa vita.

Non è casuale, forse, il fatto che l’incontro di Gesù con chi è portatore di questa malattia avvenga mentre egli continua la sua salita a Gerusalemme, in quel viaggio che per Luca è il cuore del suo racconto: un viaggio che è l’andare di Gesù con ferma decisione, indurendo il suo volto, verso quell’esodo con il quale egli avrebbe aperto all’uomo – a ogni uomo! – la via della salvezza.

Questa destinazione universale della salvezzasembra essere espressa nel racconto lucano dal numero dieci,che è il numero minimo di adulti maschi richiesto per la legittimità della preghiera in sinagoga (questo perché simbolicamente il dieci è il numero dell’agire dell’uomo, essendo dieci le dita della mano): è allora un popolo nella sua totalità che qui è visitato dalla grazia di questo nuovo esodo, che purifica da ogni lebbra.

Tuttavia, accogliere il dono di salvezza che Dio fa all’uomo in Gesù non è mai qualcosa di automatico o di scontato.

Aprirsi alla salvezza richiede la fede!

Letto secondo questa prospettiva, il racconto evangelico richiama l’episodio del Secondo libro dei Re, nel quale si narra di Naaman il Siro, anch’egli tormentato dal disfacimento della lebbra e chiamato a compiere una fatica nella fede per poter credere che le acque del Giordano siano luogo di purificazione più e meglio di tutte le acque di Damasco. 

Come Naaman, i dieci lebbrosi del racconto di Luca devono anch’essi sottoporre la loro fede – che pure ha gridato parole di fiducia («Gesù, maestro, abbi pietà di noi!») – a una prova difficile: Gesù, in questo caso, non fa gesti, non li tocca, resta a distanza (quella che anche i dieci ammalati hanno osservato per rispettare la Legge: cf. Lv 13,45-46) e pronuncia solo una parola ancora nell’ottica dell’osservanza della Legge («Andate a presentarvi ai sacerdoti»), per far sì che i sacerdoti constatino la vostra guarigione.

Ai dieci lebbrosi Gesù chiede di partire ancora con la lebbra che divora le loro carni, prima ancora che la guarigione sia compiuta ed essi partono senza vedere nulla.

È nell’obbedienza del loro mettersi in cammino, nell’andare carico di fiducia che essi si trovano purificati («E mentre essi andavano, furono purificati»).

La loro fede passa per l’obbedienza (quella di fare ciò che Gesù chiede loro) e conduce all’obbedienza (quella di sottoporsi al giudizio dei sacerdoti per la dichiarazione di guarigione), perché solo nell’obbedienza si può ricevere il dono della purificazione.

La loro è fede, perché è obbedienza che non vede (cf. Gv 20,29).

Vero centro del racconto, però, è il ritorno di quell’unico lebbroso che sa dove recarsi per rendere lode al Signore e per fare della propria guarigione una esperienza di salvezza: sì, perché la salvezza è molto di più che semplice guarigione!

Si tratta di un samaritanoche – come nella celebre parabola narrata da Luca al capitolo decimo (cf. Lc 10,29-37) – è presentato come superiore per fede anche agli ebrei “ortodossi”: egli è il solo a tornare da Gesù!

I dieci guariti erano tutti diretti al Tempio per mostrarsi ai sacerdoti, secondo il comando di Gesù: lì, una volta guariti, avrebbero potuto ringraziare Dio per la loro guarigione!

L’evangelo suggerisce che questo samaritano guarito è il solo a sapere dove sia il vero tempio per rendere gloria a Dio: è nella carne di quell’uomo, Gesù, nel quale Dio stesso è presente e operante.

Gesù è il “luogo” della salvezza e, quindi, della lode! L’evangelo, come sempre, invita a puntare lo sguardo su Gesù: solo Gesù mostra chi è Dio e chi è l’uomo… nella sua umanitàc’è tutto quanto Dio vuole dirci di sé, tutto quello che, da sempre, Dio ha nel suo cuore per l’uomo!

P. Gianpiero Tavolaro

Rose Datoc Dall (1955): Il lebbroso grato